Page 113 - Hrobat Virloget, Katja, Kavrečič, Petra, eds. (2015). Il paesaggio immateriale del Carso. Založba Univerze na Primorskem, Koper.
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tradizione dei segni scolpiti sui portali e sulle colonne in pietra del carso

sicurato che i vecchi simboli erano passati dalle antiche precedenti cornici in legno, da
serramenti e travi delle case sui portali in pietra e sugli archi dei cortili. Qualche volta tra-
sferiti anche sulle mangiatoie, culle e cassapanche. Ce n'era anche alcuni simboli in ferro
battuto sulle imposte e sulle finestre con le inferriate. Nessuno non me lo ha mai saputo
dire perché la maggior parte fosse incisa sui portali, solo in parte sui monumenti funebri
e non anche sugli stipiti (šapla)? Pare che tale fosse una tradizione – usanza per protegge-
re soprattutto le fattorie .

I Kraševi

In questo triangolo c'erano pure i Mevlja (Kraševi) di Lokev, anche loro un'antica famig-
lia di scalpellini. I loro avi avevano posseduto una cava abbastanza grande che negli anni
Cinquanta del secolo scorso scomparve sotto il gigantesco ammasso di roccia di scarto
proveniente dalla cava di Lipica aperta negli anni più recenti. I Kraševi erano amici di fa-
miglia sia dei Liletovi che degli Ivancovi di Lokev. Ebbero anche antichi legami familiari con
gli Ivancovi. In seguito, quando la cava dei Liletovi venne acquisita da Mirc, anche lui di Lo-
kev, Jožef l'ultimo titolare dell'azienda Kraševi di scalpellini, imparò quì il mestiere di scal-
pellino. Dapprima come lavorante per lavori di fatica nella cava (kavadur), poi come mae-
stro scalpellino (majster za fina dela). I Kraševi ebbero in affitto il loro laboratorio, situato
accanto alla prima casa dei Manetovi a destra del cimitero di Lokev sulla strada verso Ba-
sovizza. Anche loro avevano una specie di catalogo con modelli di decorazioni moderne.
Da bambino ero contento che fossero fra i primi in paese ad avere il televisore perché vi
andavo con altri bambini per guardare programmi di vario genere. In seguito, crescendo
continuai a frequentarli ma la mia attenzione fu attratta dalla loro lavorazione della pie-
tra con moderni macchinari il cui rumore di fondo si sentiva nel laboratorio. Il padrone
era Jože, per gli amici Pepi Krašev, un anima buona (ana dušca uod človeka). Suo fratello
Andrej Mevlja quale presidente della comunità locale, ebbe grandi meriti nel dopoguer-
ra per lo sviluppo dei nostri due villaggi. Con me Pepi era sempre allegro perché io ero
un bambino loquace e curioso. Se talvolta lo disturbavo troppo durante il suo lavoro, mi
dava un martelletto (macolca) o un martelletto a corona usato per bocciardare (bočarda)
e mi permetteva di scolpire qualche pietra scartata e di cercare di darle una forma. Nel
periodo del ginnasio, ma anche più tardi, andavo a trovarlo se avevo bisogno di qualche
consiglio ma anche solamente per ascoltare i racconti sulla pietra, sul lavoro degli scalpel-
lini e sulla vita difficile dei tempi passati.

Sebbene andassi a chiedere qualche informazione pure ad altri vecchi maestri
dell’arte della lavorazione della pietra nei villaggi (Svetina e Frankovič), nella mia memoria
e nei miei scritti si sono conservate soprattutto le tradizioni specifiche del lavoro, degli
utensili, delle modalità di estrazione, del gergo del mestiere e, naturalmente, le sculture
ed i simboli cristiani e quelli più antichi relativi al »triangolo della lavorazione della pietra«.
Il lavoro e le varie attività erano strutturati secondo usanze e regole specifiche.

Una delle prime regole era che era neccessario »calmare« la pietra più grande della
cava, perché al momento della separazione dalla parete madre era ancora viva. Più gran-
de era la pietra, ad esempio un blocco quadrato monolitico per la vera di un pozzo, più
tempo doveva rimanere all'aperto; in questo caso anche cinque lune. Per i pezzi più pic-
coli, per esempio per gli scalini (škaline), bastavano invece anche tre lune. Al giorno d'og-

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